CANCRO al seno?
non rinunciamo a fare la nostra parte
LA CHEMIOTERAPIA METRONOMICA DEL CANCRO
PREFAZIONE
Diversi anni fa una persona a me molto cara si è ammalata di cancro. La malattia è comparsa all’improvviso, già metastatica e diffusa all’addome e alle ossa. Sembrava finita e invece la chemioterapia – sia benedetta quella chemioterapia – ha portato a una remissione completa.
Dopo qualche mese però la malattia si è ripresentata. Succede con le chemioterapie. L’abbiamo scoperta che stava appena ricomparendo, quando tutto quel che si vedeva era una masserella davvero piccola. Gli oncologi amici ed altri consultati, interpellati indipendentemente, sembravano d’accordo: ci voleva una seconda chemio. Al più si poteva aspettare che la malattia progredisse maggiormente e guadagnare così del tempo.
Studiando avevo scoperto che esiste la metronomica, allora da poco entrata in scena. Avevo letto la letteratura giapponese sull’UFT usato a basse dosi e continuativamente per anni, anche in quello stesso tipo di cancro. Non si parlava di metronomica, sebbene somministrare così un chemioterapico è proprio quel che si fa nella metronomica. L’uso giapponese dell’UFT era in adiuvante, ma a me sembrava che la situazione di un cancro dopo che abbiamo asportato la massa principale somiglia a quello di uno metastatico dopo una remissione completa. In entrambi i casi si tratta in fondo di una terapia di mantenimento. Ne abbiamo discusso e abbiamo deciso di provare con una metronomica a base di UFT combinato con il PSK, un immunomodulatore.
Siamo soddisfatti del risultato, perché in tanti anni la malattia è rimasta sotto controllo e noi abbiamo continuato a fare la nostra vita di sempre, con l’unica differenza di avere una presenza in più, quella del cancro.
In questi anni mi è capitato più volte di parlare con oncologi che sono rimasti stupiti e perplessi di fronte a questa strana cura, non aggressiva, pacifica, fatta con chemioterapici, ma che chemioterapia non è. A volte mi chiedevano spiegazioni e restavano affascinati a sentir raccontare certi meccanismi biomolecolari o di altro genere. A volte mi sono sentito dire strane cose, che non hanno riscontro negli studi scientifici e mi sembravano “voci di corridoio” degli ambienti medici.
Ho pensato che cercare di spiegare con semplicità che cos’è la metronomica, come si può usare e quali prospettive apre, nonostante i limiti che ancora ha, fosse una buona idea.
Parisio Di Giovanni
Titolo: La chemioterapia metronomica del cancro spiegata a tutti
Autore: Parisio Di Giovanni
Copertina e illustrazioni: Adele Bianchi
© 2015 Parisio Di Giovanni
tutti i diritti riservati
ISBN 979 12 200 0411 4
Che cos’è la chemioterapia metronomica?
La chemioterapia metronomica è un nuovo tipo di terapia del cancro, chiamata anche chemioterapia antiangiogenica o con schema antiangiogenico o a basse dosi. Impiega farmaci usati nella chemioterapia tradizionale, somministrandoli però con un diverso schema. Nella chemioterapia convenzionale si usano dosi vicine alle più alte che il paziente sopporta (MTDs, Maximum Tolerated Doses), allo scopo di uccidere più cellule tumorali che si può. Siccome poi le alte dosi sono tossiche, dopo ogni somministrazione si fanno periodi piuttosto lunghi di riposo, tipicamente di 3 settimane, per consentire all’organismo di recuperare. Nella metronomica invece i chemioterapici vengono somministrati frequentemente, anche tutti i giorni, a ritmo costante e senza prolungate interruzioni. Il termine “metronomica” rimanda allo strumento che batte il tempo in musica, il metronomo, proprio per sottolineare il diverso ritmo di somministrazione rispetto alla chemioterapia convenzionale. A introdurre il termine sono stati Hanahan, Bergers e Bergsland, dell’Università di California, in un articolo del 2000 [1], scritto quando questo tipo di terapia era sperimentato solo negli animali e non era ancora entrato nella pratica clinica.
Nella metronomica i chemioterapici vengono somministrati a dosi decisamente più basse rispetto alla chemioterapia tradizionale. Diversamente non sarebbe possibile somministrarli a ritmo costante. Ad esempio, la ciclofosfamide nella terapia convenzionale solitamente viene somministrata in vena ogni 3 settimane a una dose che oscilla tra 500 e 1500 mg/m2. Nella terapia metronomica di solito viene data per bocca ogni giorno a una dose di 50 mg. La dose giornaliera della ciclofosfamide in metronomica è più di dieci volte inferiore a quella trisettimanale dello schema tradizionale. Una persona alta 1 metro e 75 cm e con un peso di 80 Kg ha una superficie corporea di 1,9 m2. Perciò, se in un trattamento convenzionale ci teniamo su 500 mg/m2, somministreremo 950 mg ogni 3 settimane, quasi 20 volte la dose giornaliera della metronomica. C’è anche da dire che una dose di ciclofosfamide presa per bocca equivale al 75-80% della stessa dose per via endovenosa.
Anche se ad ogni somministrazione la dose di farmaco è bassa, la dose cumulativa, quella complessivamente somministrata, può essere alta. In alcuni casi, specie se la terapia dura a lungo, con la metronomica si finisce per assumere una quantità di farmaco superiore a quella che si prenderebbe con una chemioterapia convenzionale. Questa è una delle ragioni per cui non è esatto chiamare la metronomica “chemioterapia a basse dosi”, anche se si fa.
Parlare di “chemioterapia a basse dosi” non è esatto, anche perché può far pensare che tutto quel che si fa è abbassare le dosi di una chemioterapia tradizionale per evitare effetti collaterali. In realtà le dosi non si scelgono solo in funzione del problema degli effetti collaterali, ma anche in vista degli effetti da ottenere. La dose adoperata in ciascuna somministrazione varia da farmaco a farmaco e ci si sforza di usare la dose più bassa in grado di ottenere quei cambiamenti biologici che rendono la metronomica efficace contro il cancro. Si parla di biological optimized dose (BOD). Non siamo ancora in grado di farlo con sicurezza, ma la ricerca tende a questo: arrivare a calcolare la dose in ragione dell’effetto che vogliamo ottenere.
Parlare di “chemioterapia a basse dosi” può farci credere che si tratti ancora di una chemioterapia tradizionale, mentre la metronomica è tutt’altra cosa. Agisce in modo completamente diverso dalla chemioterapia convenzionale. Questa uccide le cellule neoplastiche attaccandole direttamente. L’azione della metronomica invece è legata a certi cambiamenti biologici che i chemioterapici producono quando somministrati in questa maniera. Sono cambiamenti che riguardano soprattutto il rapporto tra organismo e tumore e che ostacolano lo sviluppo di quest’ultimo.
La metronomica è generalmente ben tollerata. Non dà gli effetti collaterali, a volte gravi, che caratterizzano la chemioterapia convenzionale. Una tossicità, più o meno significativa a seconda del tipo di metronomica adoperata, c’è. Questa però tende ad essere meno frequente e di grado più basso che con la chemioterapia tradizionale. Di regola non c’è bisogno di usare fattori di crescita per stimolare il midollo.
Alla buona tollerabilità della metronomica contribuisce il fatto che vengono preferiti i chemioterapici per bocca. Ci sono anche regimi metronomici con somministrazioni in vena, ma l’uso prevalente è di terapie orali. Questo è un grande vantaggio per il paziente, che può tranquillamente fare la terapia a casa, come farebbe per un’ipertensione o per un diabete curabile senza insulina.
Per il paziente la terapia risulta comoda anche perché, siccome gli effetti collaterali sono scarsi, di regola non c’è bisogno di molti controlli, né di ricoveri o cure aggiuntive per problemi che insorgono. Il fatto che ci si curi a domicilio e si debba poco ricorrere all’aiuto specialistico contribuisce a fare della metronomica una terapia poco costosa. Del resto i farmaci che si adoperano sono per lo più chemioterapici a basso costo.
In sintesi possiamo riassumere le caratteristiche della metronomica in 6 punti.
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Somministrazioni frequenti senza lunghe interruzioni.
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Uso di basse dosi ottimizzate in ragione degli effetti biologici da ottenere.
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Meccanismo di azione centrato sull’equilibrio organismo-cancro e radicalmente diverso da quello della chemioterapia convenzionale.
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Scarsi effetti collaterali.
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Preferenza per farmaci per bocca.
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Comodità per il paziente e bassi costi.
Capire la metronomica
Less is more: nasce l'idea della metronomica
Nel 2000 vengono pubblicati due studi sperimentali di due diversi gruppi di ricercatori, uno canadese e l’altro statunitense [2 e 3]. Entrambi sono sui topi e riportano risultati sorprendenti. Mettendo a confronto programmi di chemioterapia convenzionale e programmi di tipo metronomico emerge che i risultati sono superiori con questi ultimi.
Nella sperimentazione del gruppo statunitense la ciclofosfamide somministrata secondo lo schema convenzionale, ad alte dosi ogni 3 settimane, era meno efficace della ciclofosfamide somministrata a dosi circa 3 volte più basse ogni 6 giorni. Il tumore cresceva più lentamente e, una volta sospesa la terapia, passava più tempo prima che la malattia ripartisse. Nel caso di tumori che erano divenuti resistenti alla chemioterapia lo schema convenzionale era inefficace, mentre quello di tipo metronomico conservava la sua efficacia.
Hanahan, Bergers e Bergsland, gli autori che hanno introdotto il termine “metronomica”, nel loro articolo riassumono le due sorprendenti sperimentazioni sui topi, che erano appena state pubblicate. Prudentemente concludono che “forse non è realistico aspettarsi così drammatici risultati negli esseri umani”, ma che la metronomica “potrebbe essere messa a punto per minimizzare gli effetti collaterali della chemioterapia, spesso devastanti”. Auspicano perciò sperimentazioni cliniche dello schema metronomico, magari combinando chemioterapici con altri farmaci.
Il titolo dell’articolo comincia con “Less is more” (meno è di più), come a sottolineare il risvolto paradossale della novità scientifica di quegli esperimenti sui topi. Da decenni si pensa che la strategia migliore sia attaccare il cancro con cure pesanti, anche se ci sono costi da pagare, come il peggioramento della qualità della vita. Forse dagli studi sui topi arriva ora un’indicazione diversa, che potrebbe rendere la cura del cancro più accettabile: puntare sulle cure leggere.
I risultati di uno degli esperimenti del gruppo statunitense
Questo esperimento è su una massa sottocutanea di cellule di carcinoma polmonare. Come si vede dal grafico, adoperando lo schema convenzionale in cui la ciclofosfamide viene somministrata a dosi tre volte superiori ogni 21 giorni, il tumore comincia a crescere già prima di 40 giorni. Invece con lo schema metronomico, in cui si somministra una dose circa 3 volte inferiore ogni 6 giorni, il tumore non ricresce e il risultato si mantiene a lungo nel tempo.
Dalle scoperte di Folkman all'idea della metronomica
Com’è nata l’idea di somministrazioni ravvicinate e a dosi più basse? Nel 1971, Judah Folkman, ispiratore del gruppo statunitense che nel 2000 ha sperimentato la ciclofosfamide metronomica nei topi, aveva pubblicato un articolo che proponeva un’ipotesi rivoluzionaria [4]. L’idea di fondo è che i tumori sono angiogenesi-dipendenti, cioè che possono crescere solo se c’è produzione di nuovi vasi sanguigni (capitolo L’angiogenesi tumorale).
Finché hanno a disposizione solo i vasi che ci sono già, le cellule del cancro sono in uno stato di quiescenza, inattive, come addormentate e le masse che formano arrivano al più a 1-2 millimetri. Schematicamente possiamo distinguere tra tumori in stato non-angiogenetico, dove non si producono nuovi vasi e che non crescono e non danno metastasi a distanza, e tumori in stato angiogenetico, dove si producono nuovi vasi e che progrediscono rapidamente. Le cellule dei tumori maligni stimolano la produzione di nuovi vasi e creano così condizioni per crescere e metastatizzare.
Il fatto che i tumori sono angiogenesi-dipendenti apre nuove prospettive nella cura del cancro. Le cellule tumorali non sono l’unico bersaglio possibile. Possiamo puntare a bloccare la produzione di nuovi vasi e per questa via mandare le cellule in quiescenza e impedire che il tumore cresca e si diffonda nell’organismo. Per un decennio le scoperte di Folkman non sono state prese sul serio. Ma dopo gli anni ’80 sono partite numerose ricerche su farmaci che inibiscono l’angiogenesi e nel 2000 alcuni di questi erano già in fase avanzata di sperimentazione e prossimi all’approvazione per uso clinico.
Alcune considerazioni hanno portato Folkman e gli altri ricercatori degli esperimenti sui topi del 2000 a pensare che anche i chemioterapici possono essere usati per bloccare l’angiogenesi, a patto di cambiare lo schema di somministrazione. I chemioterapici in genere bloccano l’angiogenesi in quanto colpiscono tutte le cellule che si stanno riproducendo, non solo quelle del cancro. Per produrre nuovi vasi le cellule endoteliali, che rivestono la superficie interna dei vasi, devono moltiplicarsi, il che le rende sensibili all’azione dei chemioterapici. Ecco che sotto l’effetto di un chemioterapico la produzione di nuovi vasi si blocca.
C’è però un problema. Se lasciamo passare troppo tempo tra due somministrazioni successive di un chemioterapico, le cellule endoteliali si riprendono e l’angiogenesi riparte. Le sospensioni favoriscono l’angiogenesi e indirettamente il tumore. Di qui l’idea di provare a usare dosi più basse ravvicinate, in modo da impedire all’angiogenesi di ripartire. Si possono usare tranquillamente dosi basse perché lo scopo non è tanto uccidere le cellule neoplastiche, quanto colpire le cellule endoteliali, che sono molto meno capaci di reggere l’impatto dei chemioterapici.
Appare chiara la logica degli esperimenti sui topi pubblicati nel 2000. Somministrando dosi più basse a intervalli più brevi, i ricercatori intendevano attaccare il tumore indirettamente, con una strategia antiangiogenetica, colpendo le cellule endoteliali e bloccando l’angiogenesi a livello del tumore. Perciò parlano di “chemioterapia antiangiogenetica” e di “schema di somministrazione antiangiogenetico”. Oggi sappiamo che, quando un chemioterapico viene somministrato così (a basse dosi e a ritmo frequente), il blocco dell’angiogenesi, per quanto importante, è solo uno dei meccanismi di azione antitumorale. Perciò è preferibile parlare di “chemioterapia metronomica”.
I limiti della chemioterapia convenzionale
A spingere a sperimentare sui topi lo schema metronomico non sono state solo le scoperte di Folkman e l’idea di prendere come bersaglio le cellule endoteliali e bloccare l’angiogenesi. I ricercatori sono stati spinti anche dalla delusione per la chemioterapia tradizionale. Questa ha fatto fare importanti passi avanti nel trattamento del cancro, ma ha chiari limiti.
Le risposte, anche quando risultano brillanti, sono abitualmente di breve durata. Per quanto aggressiva, una chemioterapia convenzionale non uccide mai tutte le cellule neoplastiche del tumore. Perciò le cellule sopravvissute dopo qualche tempo fanno ripartire la malattia. C’è un altro fatto, forse ancora più preoccupante.
Quando riparte dopo un trattamento, la malattia tende ad essere più aggressiva di prima. Accade infatti che le cellule neoplastiche, proprio perché esposte all’attacco del farmaco chemioterapico, facilmente diventano resistenti, acquisiscono la capacità di sopravvivere a ulteriori attacchi della chemioterapia. È una tipica caratteristica dei tumori l’abilità di adattarsi alle condizioni avverse, grazie al fatto che si selezionano tipi di cellule più resistenti o le cellule si modificano opportunamente.
C’è da dire poi che la chemioterapia convenzionale con i suoi effetti collaterali peggiora la qualità della vita. Gli effetti collaterali cospirano anche a rendere meno efficaci i trattamenti, perché indeboliscono l’organismo, abbassano le difese immunitarie e a volte impediscono di somministrare certi chemioterapici o di somministrarli alle dosi e al ritmo desiderato.
I ricercatori avevano ottime ragioni per pensare che lo schema metronomico potesse ovviare a questi difetti della chemioterapia tradizionale. C’era da aspettarsi che le basse dosi dessero meno effetti collaterali, anche se le somministrazioni erano ravvicinate. Continuando poi a somministrare il chemioterapico, senza lunghi periodi di sospensione, non si dava al tumore il tempo per ripartire. Non c’era infine motivo di pensare che insorgessero resistenze. I ricercatori partivano infatti dall’ipotesi che la chemioterapia metronomica andasse a colpire le cellule endoteliali. Diversamente dalle tumorali, queste non sono capaci di adattarsi alle condizioni ambientali avverse e divenire rapidamente resistenti ai trattamenti. A proposito del problema delle resistenze i risultati ottenuti dal gruppo statunitense sono stati davvero incoraggianti: la ciclofosfamide metronomica funzionava anche sui tumori divenuti resistenti, sui quali la stessa ciclofosfamide somministrata in modo convenzionale era inefficace.
Una nuova filosofia della cura
A spingere i ricercatori a tentare la metronomica nei primi esperimenti del 2000 è stato anche il fatto che si andava timidamente affermando una nuova filosofia della terapia del cancro. Sempre nel 2000, poco dopo la pubblicazione dei due lavori sui topi e dell’articolo che cominciava con “Less is more”, due ricercatori dell’Università del Texas, Fidler e Ellis, hanno scritto in modo chiaro: “il cancro è una malattia cronica e dovrebbe essere trattata come altre malattie croniche” [5].
Trattare il cancro come una malattia cronica significa che non dobbiamo mirare a eliminarlo a tutti i costi, ma più modestamente accontentarci di gestirlo, pensando a far vivere le persone bene e a lungo. Qualche anno più tardi Folkman, assieme a Kalluri, chiarirà il concetto, parlando di “cancer without disease”, cancro senza malattia [6]. Si può avere nel corpo il cancro senza per questo essere malati. Molti di noi hanno tumori molto piccoli senza neppure saperlo.
Se guardiamo al problema del cancro in questi termini, ostinarsi a eliminare dal corpo le cellule del cancro ha poco senso. L’importante è star bene. In quest’ottica una terapia come la metronomica è davvero promettente. La chemioterapia metronomica ancora oggi è strettamente legata a un approccio al cancro più realista e umano. È una filosofia che mette da parte la fissazione di far la guerra al cancro, per averla vinta a tutti i costi con questa terribile malattia. Punta invece a prendere atto dei limiti che oggi ancora abbiamo e a cercare di far vivere bene e a lungo le persone che hanno in corpo il cancro.
“For cancer, seek and destroy or live and let live?” (per il cancro, cerca e distruggi o vivi e lascia vivere?) è il titolo di un articolo pubblicato nel 2009 da André e Pasquier, due oncologi pediatrici impegnati nella ricerca sulla metronomica [7]. Lascia intendere bene la nuova filosofia. Qualche mese prima Gatenby, ricercatore del Moffitt Cancer Center in Florida, aveva messo in discussione l’idea del proiettile magico (magische Kugeln), che risaliva a Paul Ehrlich, famoso medico e scienziato tedesco dell’Ottocento, pioniere delle ricerche sulle malattie infettive e il cancro [8]. L’idea di usare farmaci che agiscono come proiettili magici, che colpiscono microrganismi o cellule impazzite e risparmiano le cellule sane, ha dato buoni risultati con le malattie infettive. Col cancro però – dice Gatenby – forse conviene una nuova strategia, tesa a controllare la malattia più che a distruggere le cellule che la provocano.
Lascia intendere bene la nuova strategia l’immagine della potatura, che usa Gatenby. Un cancro è come un albero che cresce in modo incontrollato. La cosa migliore da fare è circoscriverlo, potando sistematicamente i rami in eccesso e facendo in modo che resti entro confini stabiliti senza fare danni. Non lo sradichiamo, lo lasciamo lì, ma evitiamo che diventi una presenza problematica.