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MIO FRATELLO CANCRO

PREFAZIONE

 

Quando il cancro entra nella nostra vita, perché ci ammaliamo noi o una persona cara, restiamo sconvolti. Tendiamo a pensare che le cose sono radicalmente cambiate. Capita a volte che si arrivi al punto di non considerare più  la vita realmente vita: chi è ammalato pensa che la sua vita è finita anche se in realtà sta continuando e gli altri guardano a lui come a uno che è vivo ma non è più vivo.

A viziare i nostri pensieri è la tendenza alla positività, nota anche come  bias di Pollyanna, dal nome della protagonista della famosa storia di Eleonor Porter. È la tendenza a considerare gli eventi positivi più frequenti e più probabili dei negativi, per cui la vita normale ci appare fatta di salute, benessere, successi, giustizia, mentre le malattie, i disagi, i fallimenti, le ingiustizie sono eccezioni.

La tendenza alla positività è utile, dato che ci fa affrontare la vita con fiducia e ci spinge a darci da fare quando le cose non vanno. Se ci lasciamo prendere da questo modo di pensare però finiamo per crearci un’impressione falsa della vita, per non renderci conto di come realmente è. L’illusione ci rende impreparati quando la sventura arriva e commettiamo errori.

Le statistiche possono aprirci gli occhi. Le più recenti disponibili dicono che in un paese come l’Italia ogni giorno si fanno circa 1.000 diagnosi di cancro. Ogni anno si ammalano 6 persone ogni 1.000 e 3 ogni 1.000 muoiono per cancro. Se abbiamo la fortuna di vivere abbastanza, nell’arco della vita abbiamo una probabilità su due di ammalarci di cancro, cioè del 50%, nel caso siamo di sesso maschile. Se invece siamo di sesso femminile, la probabilità è un po’ più bassa: una su tre, circa il 30%. È evidente che il cancro è diffusamente presente nelle nostre vite e dobbiamo ragionevolmente aspettarci che si affacci, perché ci ammaliamo noi o qualcuno vicino a noi.

Una volta poi che ce lo hanno diagnosticato, il cancro resta con noi finché viviamo, che la malattia continui o che si ripresenti dopo un periodo di silenzio o che ci lasci fino all’ultimo con la paura di vederla tornare. Il cancro è ormai parte della nostra vita. Helen, la protagonista della storia narrata nel libro, lo dice suggestivamente quando chiama il suo “mio fratello cancro”. Perciò ha poco senso guardare alla vita con altri occhi, fino a considerarla non più vita, solo perché si è affacciato un cancro. Ecco il primo robusto insegnamento che il libro contiene: la vita col cancro è pienamente vita.

Un altro importante insegnamento riguarda il modo di combattere il cancro. La medicina è impegnata a trovare armi per sconfiggerlo. Forse un giorno ci riuscirà, com’è accaduto per altre malattie che pure mietevano vittime. Io mi ammalo oggi però e posso contare soltanto su ciò che la medicina ha scoperto finora. Per me la cosa più importante non è andare dietro a rimedi miracolosi, ma riuscire a gestire la mia malattia al meglio con i mezzi che abbiamo, vivendo il più a lungo possibile e nelle migliori condizioni possibili.  Gestire il cancro è un’arte, che richiede ragionamento e filosofia.

La storia di Helen, che gestisce la sua malattia con l’aiuto del marito Leonard, medico eclettico e insolito, fa cogliere molti punti decisivi nella gestione del cancro. Emerge anche il problema di gestire gli oncologi, che per una serie di ragioni a volte non sono i migliori consiglieri.

La prima parte del libro narra la vicenda di Helen e Leonard alle prese con questo “fratello problematico”. Quello di Helen è un “amazing case”, un caso incredibile, come l’ha definito un famoso medico e ricercatore in contatto con Leonard. È particolare non solo per il successo delle cure, ma anche per come vengono decise via via le cose da fare, per la razionalità, la saggezza e il coraggio delle scelte che Helen e Leonard fanno assieme.

Dentro le vicende di questa storia di cancro si annidano tanti insegnamenti per chi vuole gestire al meglio la malattia e gli oncologi. Nella seconda parte del libro alcuni di questi insegnamenti vengono ripresi e illustrati ordinatamente.

Leggere Mio fratello cancro può essere d’aiuto a chi soffre della malattia, ai suoi cari, ma anche a medici, operatori socio–sanitari e a tutti noi.

Adele Bianchi e Parisio Di Giovanni

Titolo:

Mio fratello cancro

Autori:

Adele Bianchi e Parisio Di Giovanni

In copertina:

«Sulla collina», olio su tela di Eugenio e Parisio Di Giovanni

© 2015 Adele Bianchi e Parisio Di Giovanni

tutti i diritti riservati

ISBN 9791220001748

L’avventura di Leonard e Helen alle prese con il cancro

"Sulla collina" olio su tela di Eugenio Di Giovanni e Parisio Di Giovanni

Il cancro si affaccia nella vita di Helen

Mancano venti giorni al suo cinquantacinquesimo compleanno, che cade il giorno di Natale, quando Helen scopre di avere un cancro ormai molto avanzato. È psicologa e assieme al marito Leonard, medico e professore universitario, sta insegnando in un corso di formazione per medici. A un certo punto Leonard e alcuni medici che partecipano al corso la guardano attentamente da lontano, con uno strano sguardo clinico; poi il marito si avvicina e le dice: “Il tuo addome si è gonfiato, sembra ascite, un versamento di liquido. Dobbiamo fare accertamenti. Ho già preso accordi per domani”.

Alla sera, tornati a casa, il marito la visita e conferma che c’è liquido in addome. Il giorno dopo ecografia e TAC mostrano che oltre all’ascite c’è un cancro viscerale diffuso, che interessa peritoneo, stomaco, ovaie e uretere sinistro. Anche alcune ossa sembrano sede di malattia. La gastroscopia fa vedere una grave linite plastica: è un diffuso interessamento dello stomaco, in cui la parete è tutta infiltrata da cellule neoplastiche e appare rigida, raggrinzita e deformata.

Ma c'era già

Ora si spiegano certi disturbi che si trascinavano da alcuni anni e che evidentemente erano stati sottovalutati. Poco alla volta Helen era parecchio dimagrita, a volte dopo i pasti vomitava, aveva bruciori notturni e le caviglie tendevano a gonfiarsi. Aveva fatto accertamenti, ma non era risultato nulla di importante.

A dire il vero erano emerse un paio di cose che avrebbero potuto indirizzare verso la diagnosi. A una gastroscopia di un anno prima lo stomaco appariva un po’ rigido. Per il gastroscopista si trattava di un semplice disturbo della motilità, dato che la mucosa era sana e visto dall’interno lo stomaco era normale. Leonard aveva osservato che a provocare quella rigidità poteva essere un tumore che infiltrava gli strati esterni della parete dello stomaco e che perciò non si vedeva dall’interno. Il gastroscopista però aveva liquidato la sua come l’ipotesi inverosimile di un marito preoccupato (“che vai a pensare!”) e Leonard si era lasciato convincere a essere ottimista. Come ci piace credere che tutto vada bene e ignorare i segnali di allarme!

Due anni prima un’ecografia dell’addome aveva messo in evidenza a sinistra un modesto restringimento dell’uretere, il canale che porta l’urina dal rene alla vescica. Leonard e l’ecografista avevano convenuto che la cosa non era particolarmente importante. Due anni dopo, a malattia esplosa, andando a studiare per fare la diagnosi, Leonard avrebbe scoperto che l’uretere, il sinistro in particolare, è tipicamente una delle prime sedi interessate dal cancro metastatico che aveva colpito la moglie.

Leonard torna a fare il medico

Ora è evidente che c’è un cancro metastatico. Ma quale tipo di cancro è? da dove origina? e come conviene tentare di curarlo? Leonard è troppo in crisi per ragionare da medico sulla malattia della moglie. A metterlo in crisi è soprattutto il senso di colpa: col senno di poi pensa che avrebbe potuto e dovuto scoprire il cancro molto prima, quando era più curabile. Helen invece è serena e distaccata, come se stesse a guardare la storia della malattia di un’altra persona. Così è lei a dare sostegno a Leonard e, per alleggerirgli il carico, lo incoraggia a mettere la responsabilità della cura nelle mani di qualche specialista esperto.

Si recano in un centro di eccellenza, dove lo specialista, dopo aver visitato Helen, chiama da parte Leonard e pronuncia una dura sentenza: è un cancro ovarico, molto avanzato, non so se vale la pena di iniziare una chemioterapia, perchè non credo che tua moglie abbia tre mesi di vita. Spinti dalla disperazione, su consiglio di un parente anatomo-patologo, approdano da un oncologo di fama, Stephen T., che è più possibilista: può essere ovarico o gastrico o forse anche mammario e va tentata una terapia potenzialmente efficace in tutti e tre i casi. Pensa anche all’origine mammaria, perchè ha già avuto casi di quadri metastatici simili dovuti a cancro della mammella. Diversamente dall’altro questo specialista sembra cautamente fiducioso e consiglia una chemioterapia con docetaxel + capecitabina.

Nel frattempo le condizioni di Helen sono rapidamente peggiorate. È molto dimagrita, non mangia ed è assai debole, tutti segni di cachessia neoplastica, manifestazione del fatto che il tumore sta prevalendo sull’organismo e la fine rischia di essere vicina. Perciò Helen si ricovera, in modo da sottoporsi alla chemioterapia in ospedale, dove possono controllarla costantemente e assicurarle le terapie di supporto di cui ha bisogno.

Durante il ricovero Leonard si rende conto che in realtà l’ospedale non è in grado di assicurare alla moglie tutta l’assistenza necessaria. C’è bisogno di un’alimentazione adeguata per la cachessia, di tenere sotto controllo il bilancio idrico (misurando urine e  liquidi introdotti), di mantenere in equilibrio gli elettroliti, soprattutto il potassio, che tende a scendere a valori pericolosi, che possono portare a disturbi cardiaci persino fatali. Leonard parla con i colleghi medici del reparto, che si giustificano sostenendo che un’assistenza come quella che chiede si può avere solo in un reparto specializzato in cure intensive e garbatamente gli lasciano intendere che tanto è tutto inutile, perchè sua moglie sta morendo di cancro. Il medico più anziano lo chiama nella sua stanza, chiude la porta, gli si avvicina e a bassa voce gli dice: “Forse non hai capito che è finita, forse l’amore ti rende cieco” .

A questo punto Leonard ha come un improvviso risveglio. Decide di impegnarsi a curare Helen con tutte le sue forze. Non penserà più al passato, ma a quella sfida che ha davanti e che gli altri sembrano dare per persa. A scuoterlo è soprattutto una riflessione: come può un medico arrendersi di fronte a un cancro al punto da omettere semplici interventi e lasciar morire il paziente d’altro?

Porta sua moglie a casa dove si organizza per assisterla personalmente giorno e notte. Dato che Helen non riesce più ad alimentarsi, la mette in infusione continua e la nutre per via parenterale. Fa prelievi quotidiani del sangue, tiene costantemente sotto monitoraggio cuore e  parametri vitali con l’elettrocardiografo e altri strumenti e mantiene l’equilibrio idro-elettrico. Ha esperienza di questo genere di cure intensive, perchè da giovane, per venti anni, ha lavorato come geriatra. Aveva l’abitudine di dedicarsi con tenacia ad assistere pazienti anziani in gravi condizioni, dati per spacciati, e a volte otteneva successi inaspettati, tanto che era soprannominato “alzati e cammina”.

Uniti contro il male

Leonard si mette a studiare approfonditamente la cachessia, di cui sa poco, e mette a punto strategie di alimentazione, di cura e di controllo. Tiene presenti le indicazioni standard, ma segue anche un piano personalizzato, che adatta via via alle specifiche condizioni della moglie. Poco alla volta Helen ricomincia ad alimentarsi per bocca e Leonard prepara una dieta mirata, adeguatamente bilanciata e con una serie di integratori utili a combattere la cachessia e far star meglio la moglie. Scrupolosamente Helen e Leonard pesano alimenti, dosano integratori, calcolano calorie, proteine, grassi, zuccheri e tengono tabelle giornaliere. Facendo diligentemente questo lavoro Helen e Leonard sperano che il loro impegno sia ripagato e soprattutto si sentono uniti, forse come mai prima di allora. Esami del sangue e delle urine aiutano Leonard ad aggiustare via via la dieta sulla base delle condizioni della moglie.

Oncologi con la fissazione di fare la guerra al cancro

Mentre è impegnato a gestire la dieta della moglie Leonard comincia a nutrire le prime serie perplessità su come tendono a pensare gli oncologi. Tecnici e medici del laboratorio dove fa eseguire test del sangue e delle urine si meravigliano delle sue richieste e sono curiosi di sapere quale uso fa dei risultati. Ad esempio, gli chiedono come mai fa dosare nel sangue la prealbumina, invece di limitarsi all’albumina, o perchè raccoglie spesso le urine delle 24 ore e ne misura il contenuto di azoto. Sono curiosi perchè gli oncologi abitualmente non chiedono questi esami, eppure in ospedale ci sono pazienti che soffrono, come Helen, di cachessia neoplastica.

I laboratoristi trovano molto interessanti le spiegazioni di Leonard, tanto che poi sono attenti a notare le variazioni nei risultati dei test e a interpretarle assieme a lui, scoprendo con soddisfazione che sono utili. Ma perchè gli oncologi fanno scarso uso di questi esami? Leonard si convince che non considerano la cura della cachessia abbastanza importante da lavorarci con finezza: sono più concentrati sul cancro, che sullo stato di nutrizione di chi ha il cancro.

Un noto oncologo si offre di dargli consigli e parlando con lui Leonard si conferma nell’idea che gli oncologi tendono a concentrarsi troppo sul cancro. L’oncologo con tono di rimprovero gli dice che è un errore dare a Helen integratori, come l’arginina o la glutamina, perchè “nutrono il cancro”. Leonard, che ha letto molti articoli sull’argomento, sa che per l’arginina la cosa ha un fondo di verità, ma che è discutibile che la glutamina possa favorire il cancro: sembra avere un’azione selettiva, che protegge le cellule sane e rende vulnerabili le neoplastiche. A sconvolgerlo però è un interrogativo: che senso ha lasciare che la cachessia distrugga l’organismo per paura di dare un modesto vantaggio al tumore? Se l’organismo cede, abbiamo perso Helen. Dobbiamo si mettere in difficoltà il tumore, ma con equilibrio, senza penalizzare troppo l’organismo.

Arriva la diagnosi

Leonard studia alacremente e si dà da fare anche per arrivare alla diagnosi di origine, per stabilire se il tumore primitivo è ovarico o gastrico o mammario. Fa esaminare attentamente dal parente patologo biopsie prese nello stomaco e, una volta visti i risultati, comincia a pensare che il cancro venga dalla mammella, non dall’ovaio, come aveva detto il primo specialista consultato, e nemmeno dallo stomaco.

Ci sono cellule ad anello con castone, dette così perchè sono piene di muco e finiscono per somigliare a un anello con una gemma incastonata. Cellule con questo aspetto sono tipiche del cancro gastrico, ma quello di Helen non può essere un cancro gastrico. Infatti l’esame chimico delle cellule neoplastiche mostra che sono assenti i marcatori molecolari dei tumori gastrointestinali, mentre sono presenti  mammoglobina e GCDFP-15, marcatori specifici del cancro della mammella. Ci sono anche i recettori degli estrogeni e del progesterone, che pure orientano verso il mammario, seppure non con certezza perchè è possibile trovarli anche nel gastrico e nell’ovarico.

Del resto Leonard nei suoi studi scopre che cellule ad anello con castone possono esserci anche nel cancro mammario. In particolare un tipo di mammario, il lobulare invasivo, ha una variante mucinosa, che è fatta di cellule ad anello con castone, proprio come un cancro gastrico.

Ormai Leonard è diventato uno studioso instancabile della letteratura scientifica sull’argomento: per ogni domanda che gli viene in mente trova su Internet gli articoli scientifici pubblicati e poi li passa in rassegna sistematicamente. Gli è di aiuto il fatto che ha passato la vita a studiare e far ricerca, seppure in altri settori e forse mai con tanta tenacia. Così arriva a scoprire un fatto importante: negli ultimi vent’anni sono state pubblicate ricerche che descrivono quadri clinici simili a quello di Helen e dovuti a tumori primitivi (cioè tumori a partire dai quali il cancro si è diffuso nel corpo)  della mammella, tumori primitivi che spesso si scoprono nella mammella solo dopo che la malattia si è diffusa all’addome o non si vedono affatto e restano – come si dice –  occulti. Gli oncologi per lo più ignorano che questo può accadere e perciò spesso sbagliano diagnosi. Quello che Stephen T. aveva sospettato sulla base della propria personale esperienza clinica era documentato scientificamente.

Subito Leonard fa fare a Helen esami radiologici per cercare il tumore primitivo. Leonard aveva palpato attentamente le mammelle senza trovare nulla di significativo.  Anche mammografia e risonanza risultano negativi, ma Leonard sa che il primitivo, specie se è un lobulare invasivo, può essere occulto, cioè non vedersi con gli esami radiologici. D’altra parte la mammografia mostra piccole calcificazioni, che a volte possono essere dovute a un cancro. 

Ormai è convinto che il cancro di Helen sia partito dalla mammella. Sente comunque il bisogno di confrontarsi e chiede un parere a distanza, una remote second opinion, a un grande centro specializzato nel cancro mammario. La risposta lo conforta: anche per la dottoressa che scrive il parere Helen ha un cancro metastatico che sicuramente o quasi viene dalla mammella. È abbastanza certa della diagnosi, perchè in quel centro trattano moltissimi cancri mammari l’anno, hanno accumulato grande esperienza e hanno visto diversi casi come quello di Helen.

Non contento Leonard fa fare un altro esame sulle cellule delle biopsie dello stomaco: lo studio del profilo dei recettori degli estrogeni. I test che i patologi eseguono di routine fanno vedere solo un tipo di recettore (l’alfa), ma la ricerca ha dimostrato che ne esistono altri (i beta). Nel cancro lobulare invasivo della mammella i vari tipi di recettori sono combinati secondo un profilo caratteristico. Leonard fa fatica a trovare un patologo che esegua uno studio dei recettori alfa e beta, ma alla fine lo trova e il profilo è quello del lobulare invasivo.

A questo punto la diagnosi sembra assodata. A convincere Leonard non sono solo il quadro clinico e i vari test, ma anche un semplice ragionamento: nella donna il cancro mammario è di gran lunga più frequente dell’ovarico e del gastrico. Leonard è un esperto di ragionamento umano, fa ricerca proprio sugli errori di ragionamento dei medici e sa che un errore comune consiste nel trascurare la probabilità di base che una persona ha di avere una data malattia e basarsi solo sulle informazioni che orientano la diagnosi una volta che la malattia si è manifestata. Anche se quadro clinico e test lasciassero dubbi, l’origine mammaria sarebbe comunque la più probabile. Se aggiungiamo che quadro clinico e test fanno pensare a un cancro mammario, la diagnosi diviene talmente probabile che in pratica possiamo  considerarla certa.

Dopo la diagnosi una chemioterapia di successo

La diagnosi di origine è importante per la terapia. La chemioterapia proposta da Stephen T. funziona molto meglio in un cancro mammario, che in un ovarico o un gastrico. Leonard ne parla con Helen e assieme decidono di puntare su quella cura.

Dopo tre cicli di docetaxel e capecitabina la malattia migliora e dopo sei c’è remissione completa, cioè non ci sono più segni clinici di malattia. L’ascite è scomparsa, Helen ha ripreso il suo peso e le sue forze, Risonanza Magnetica e PET-TAC sono normali e si sono normalizzati anche i marcatori del sangue che prima erano elevati (CA 15-3, CA 125, CA 72-4, CEA, ferritina). Alla gastroscopia non si vede più nulla.

Ancora alle prese con la fissazione di fare la guerra al cancro

Alcuni oncologi consigliano altri tre cicli di terapia, per colpire più a fondo il cancro, ma per Leonard andare ancora avanti con la chemioterapia è insensato. È vero che la malattia c’è ancora, anche se gli esami clinici non la fanno vedere. In vari punti del corpo sono sicuramente rimaste cellule cancerose che non danno segni della loro presenza perchè poco attive o dormienti o anche perchè formano masse troppo piccole per essere evidenziate con i metodi di diagnostica per immagini che usiamo. Questo non è un buon motivo però per insistere con la chemioterapia.

Una chemioterapia, per efficace e protratta nel tempo che sia, non riesce mai a uccidere tutte le cellule cancerose. Ricerca e esperienza clinica hanno insegnato che una quota di cellule cancerose, più o meno grande, resiste anche alla più aggressiva delle terapie e sopravvive. Se non c’è speranza di eradicare il suo cancro, di eliminarlo definitivamente, sottoporre Helen ad altri cicli di chemioterapia significa solo farla soffrire ancora ed esporla a rischi.

Una remissione completa è il miglior risultato possibile, la cura ha dato tutto ciò che poteva dare. Ora è importante che Helen si riprenda dai danni fisici e dai disagi dei sei cicli di chemioterapia e ritorni a una vita normale. Forse ancora più importante è non farle correre ulteriori rischi.

Armi a doppio taglio da maneggiare con cura

Le chemioterapie sono pericolose: se il cancro non fosse quella malattia terribile che è, non penseremmo mai di curare le persone con terapie così temibili. Durante i primi sei cicli Helen e Leonard avevano  sperimentato una delle terribili insidie di questo genere di cura. La terza infusione di docetaxel era cominciata da pochi minuti quando Helen improvvisamente avvertiva un senso di oppressione al torace, stentava a respirare e impalidiva. “Ho pensato di morire”, dirà più tardi. Leonard aveva subito interrotto l’infusione: la prima cosa da fare in questi casi. Quella aveva tutta l’aria di una reazione di ipersensibilità di tipo I, che il docetaxel può dare, tipicamente dopo la seconda infusione.

Fortunatamente nel giro di qualche minuto...

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IL RACCONTO CONTINUA E POI IL LIBRO CI PROPONE UNA SERIE DI RIFLESSIONI
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